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Ho una disabilità e porto con me le specificità (chiamatele sfide) legate al deficit sensoriale, al genere femminile di appartenenza e a tutte le altre particolarità che fanno di me, me stessa e non altri. E con il mio bagaglio di unicità sono inserita – più o meno – nel mondo del lavoro. E mentre svolgo per parte del tempo un mestiere disegnato sul mio deficit e rispondente ad un ormai obsoleto paradigma medico-sanitario della disabilità, collaboro volentieri con chi quel paradigma sta cercando di ribaltarlo a suon di formazione, sensibilizzazione e progetti concreti.

Partendo dalle mie esperienze, dall’analisi di ciò che mi accade e dall’opera di ricerca e di formazione infinita che porto avanti insieme alle suddette sfide, mi sono fatta un’idea abbastanza precisa (mai definitiva ovviamente) di quali siano i fattori che contribuiscono alla riuscita di un’azione di inserimento lavorativo. Si tenga presente che in questa analisi mi riferisco ad un mercato del lavoro – quello italiano – in cui esiste per molti datori di lavoro – un obbligo di legge ad assumere lavoratori iscritti alle cosiddette “categorie protette”.

Partiamo dalla storia: in base al paradigma medico sanitario della disabilità, viene riconosciuto un deficit che porta con sé una mancanza, diagnosticata e certificata dal sistema sanitario e sociale che dice: “io riconosco che ti manca qualcosa”. Da quel riconoscimento prendono il via (dovrebbero almeno) gli interventi di sostegno. Ecco che ad esempio, siccome non vedi, puoi fare il centralinista o il massaggiatore, perché lì non ti serve vedere.  Oppure, siccome non ci senti, puoi fare data entry tanto col PC non devi conversare. Oppure dando per scontato che sia un lavoro banale: “quelli in legge 68 li mettiamo in ingresso o a fare delle fotocopie”.

Andrebbe tutto bene se non fosse che così non stiamo guardando alla persona, ma solo a quello che le manca, o peggio, a quello che il sistema ha certificato che le manca. E infatti la legislazione italiana e ancor più quella internazionale ribaltano questo paradigma e adottano un approccio “bio-psico-sociale” che quindi mette al centro non il deficit ma la persona, e dalla domanda “Cosa ti manca?” con l’avvento dell’ICF (International Classification of Functionings) ci si chiede “Come funzioni?”

Se adottiamo questa prospettiva e ci prendiamo cura del sacrosanto diritto di attuare gli “accomodamenti ragionevoli” necessari alla persona con disabilità per dare il proprio meglio, tutto cambia. Possiamo analizzare i fattori che facilitano e quelli che ostacolano il processo, possiamo osservare i punti di forza e le aree di miglioramento della persona e del contesto e così individuare i passaggi necessari.

Si tratta di una scommessa che si vince puntando – come diciamo io e tanti altri esperti – prima di tutto sulla formazione. Occorre conoscere il tema, normative, strategie e buone prassi, e aprirsi ad un mondo – quello della disabilità – che non è un mondo a parte, ma è parte del mondo. Occorre rinunciare a stereotipi e pregiudizi per lasciarsi incuriosire da quel che non si conosce, per scoprire che inaspettatamente ad un deficit sensoriale, fisico, cognitivo o psichico corrisponde un talento spendibile in un ambiente di lavoro adeguato.

Occorre a mio parere superare i tecnicismi normativi e le procedure standardizzate, oltrepassare il protocollo e agire a partire dalla legge e non come se l’assolvimento dell’obbligo fosse l’obbiettivo finale.

Ed ecco che si fa imprescindibile il piano relazionale della sfida: saper accogliere, osservare, fare silenzio azzerando il pregiudizio e il giudizio. E da lì instaurare un clima di fiducia nel quale ci si possa esprimere al meglio e anche segnalare eventuali criticità. Naturalmente la riuscita di questo processo dipende non solo dai singoli soggetti o dal team in campo, ma anche da un contesto di cultura aziendale che porta dentro di sé il detto e il non detto e che va compreso e analizzato.

E’ un viaggio lungo e sempre nuovo, e quando ho l’occasione di accompagnare chi vuole mettersi in viaggio, sorrido onorata.

Ma cosa c’è oltre la formazione e la conoscenza e oltre la relazione? Cosa potrebbe facilitare l’apertura di nuovi spazi, non solo nei confronti delle persone con disabilità ma in senso più ampio verso tutti coloro che come me e come voi, viaggiano in questo mondo col proprio bagaglio di autenticità, particolarità, peculiarità, unicità irriducibili alla norma?

Fantasia.

Questa è la parola chiave. Per i più timidi può tradursi in creatività.

Con questo non intendo dimenticare che esistono logiche di mercato, urgenze di profitto e forniture da pagare. Tutto il contrario. So bene che solo in pochi riescono ad andare al di là di queste ansie e anche per me non è facile; dunque, non aspettatevi qui discorsi strampalati da inquilina della nuvoletta rosa, per quanto vorrei piantarci la tenda e prenderci residenza.

Sto solo dicendo che se lasciamo che siano i protocolli, i diritti e le caselle dell’obbligo a vincere la sfida della Diversity in azienda, siamo fritti. Occorre uno sforzo di creatività e di fantasia da parte di tutti gli attori in gioco, nessuno escluso.

In primo luogo è necessario che i datori di lavoro rinuncino all’idea che ci sono lavori da categorie protette distinti dagli altri e che curino la propria formazione su questi temi, mettendoli in primo piano e non in fondo alla loro to do list.

In secondo luogo occorre che chi si inserisce nel mercato del lavoro con una disabilità si prenda la responsabilità di sé e dei propri limiti allo scopo di scoprire i propri talenti e proporsi non per quel che manca ma per quel che c’è. Soprattutto per chi è cresciuto in una cultura sempre troppo attenta a sottolineare le mancanze e a sminuire l’autenticità, si tratta di un passaggio difficilissimo e forse mai definitivo. Se ogni giorno ti fanno notare che ti manca un pezzo, è facile che prima o poi finisci per crederci, tanto più che ognuno di noi, disabile o meno, si è sentito giudicato come manchevole perché mostrava tratti non standard. E dove c’è il paracadute dell’assistenzialismo che può garantirti anche solo di respirare e nutrirti adeguatamente senza strozzarti di fatica ogni giorno per essere all’altezza di un sistema che ti vuole fuori, chi te lo fa fare di cercare la tua versione migliore?

E qui arriva l’iperbole dell’utopia che qualcuno di voi ha intravisto sin qui:

E’ indispensabile uno sforzo da parte di chi ha l’impressione di non essere coinvolto in tutto questo, perché la cultura la facciamo tutti, nessuno escluso. Quando sento dire “Io non c’entro”, “non mi riguarda” o “Ci penserà qualcun altro”, capisco che il lavoro da fare è tanto. Non possiamo pensare che i diritti delle donne riguardino solo loro, così come non capisco che senso abbia credere che le questioni relative alla disabilità riguardino solo i disabili, i loro care givers e tuttalpiù le crocerossine che vogliono occuparsene.

Se vogliamo essere tutti un po’ più liberi di essere noi stessi, dobbiamo anche essere tutti un po’ più responsabili di quel che sembra non riguardarci, questioni di gender, abilità, cultura e ceto e chi più ne ha più ne metta.

Sono convinta che se ci allenassimo a proteggere la diversità sempre e comunque, a premiare l’autenticità e a riconoscerne il portato innovativo e nutriente per il bene comune, potremmo imparare anche qualcosa in più rispetto a chi  siamo e a ciò che possiamo diventare. Che forse – se giochiamo tutti insieme, magari scopriamo che questo bizzarro gioco dell’inclusività può essere tanto gratificante da poter diventare quotidiano e benefico per tutti.

Per saperne di più contattatemi: posta@nadialuppi.it

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