Racconto di quattro giorni sul Cammino delle Terre Mutate insieme alla Fondazione per lo Sport Silvia Parente.
Su quei pendii ci avevo pedalato esattamente un anno fa. Sudare sui pedali per portare insieme il tandem verso la cima, Scivolare giù sollevando il sedere dalla sella come per volare in picchiata, arrivare di spinta davanti al rifugio con l’adrenalina a mille, mi diverte, mi fa ridere, mi nutre e mi fa sentire viva. Ma camminare è per me una sorta di respiro, qualcosa che fa parte di me. Ricordo con molta chiarezza che più di una volta, mentre pedalavamo su e giù per i Monti Sibillini, ho desiderato di camminarci su quelle terre.
Perché camminare significa ascoltare la terra sotto i piedi e sentirla anche un po’ dentro, significa andare piano, prestare attenzione ad ogni passo, chiedere il permesso al bosco e poter anche fermarsi ad ascoltare cosa ci accade dentro. Se si drizzano le antenne che abbiamo sotto i piedi, si sente la magia della terra e tutta la sua energia. Se si fa silenzio, ci si può immergere nella bellezza e commuoversi per la forza di un germoglio, per il profumo di un fiore, per l’entusiasmo con cui scorre un torrente di montagna.
Mettersi in cammino per più giorni è ancor più di questo.
Significa lasciare spazi e tempi noti per lanciarsi fuori dalla zona di confort.
Comporta scegliere accuratamente quelle pochissime cose che pensiamo ci serviranno nel nostro viaggio, farsele bastare e goderne come fossero tesori.
Vuol dire affidarsi a chi ci guida e ai nostri stessi passi, alla terra e anche al temporale, con prudenza e fiducia.
Implica vivere momento per momento, godere dei cicli di buio e luce, assaporare l’alternanza di caldo e freddo, salita e discesa, luce e ombra, per quanta fatica ciò comporti.
Camminare, per sentieri e nella vita, significa dire sì a quel che non conosciamo, ai passi che non abbiamo ancora fatto, al cielo e alla terra che incontreremo. Forse per questo è così difficile lasciare il divano e fare il primo passo… A tenerci incollati alla poltrona ci si mette la pigrizia ma ci infila lo zampino anche la paura, e quella sul divano, ci mette il Bostik. E sul mio divano di Bostik ce n’era parecchio. Prima di partire mi osservavo e facevo la conta dei miei malanni e mi chiedevo se fosse il caso di partire. So bene che tutto cambia e a volte tutto cambia in un attimo; anche il corpo matura rigidità, manifesta debolezze e ferite che camminano con noi. Ma oltre a quei dolori, oltre ai timori e al contorcersi della mente, sentivo sempre più forte il richiamo (sarà stata la Sibilla?) e un profondo senso di fede verso la magica terra che mi avrebbe accolta. Sentivo che volevo profondamente esserci, nonostante tutto.
E come sempre i perché di quella sensazione sono arrivati mentre camminavo, e come sempre sono arrivati dagli alberi e dal fango, ma sono arrivati anche e soprattutto dalla meraviglia che ho incontrato in quell’entusiasmante labirinto di specchi che era il gruppo con cui ho condiviso quei giorni.
Tra gli appassionati di cammino gira voce che il vero cammino è quello fatto da soli. Perché – dicono – il bello è poter seguire il proprio ritmo senza adattarsi a quello altrui e la sfida sta nel darsi coraggio da soli, nel farcela da soli, nel vivere la sfida del sentiero senza qualcuno che guida. Per certi versi mi trovo d’accordo: camminare significa ascoltarsi, osservarsi e stare in contatto totale con quel che c’è, dentro e fuori di noi.
Ma chi l’ha detto che se camminiamo in gruppo, non possiamo ascoltarci?
E’ vero che camminare in gruppo significa poter contare sull’energia potentissima che è molto di più della somma delle singole energie individuali. Tuttavia la sfida sta anche nel prendersi cura a vicenda, nel sostenere qualcun altro in un momento critico o nel lasciarsi aiutare quando è ora. E per fare tutto questo, occorre essere presenti a sé stessi. Occorre esserci e ascoltarsi, perché come qualcuno ha imparato in questi giorni “Se non mi sento io, non riesco ad aiutare gli altri”.
Ripeto spesso – e me ne convinco sempre di più – che gli altri sono nostri specchi, e che come tali possono rivelarci parti di noi che altrimenti faticheremmo a vedere. A volte notiamo atteggiamenti e caratteristiche che ci piacciono, altre volte scorgiamo temperamenti e modi di agire che ci infastidiscono: comunque sia, è proprio lì, tra quello che vediamo e quello che sentiamo, che si nasconde un pezzo di noi che va ascoltato. In quei giorni mi sono lasciata rapire da tutto quel che voleva rapirmi: voci, sguardi, abbracci, odori, risate, lacrime, incomprensioni, malintesi, chiarimenti, avvicinamenti e distanze, parole e silenzi. Ciò non significa che non mi sia ascoltata. Tutt’altro. Le persone che incontriamo non arrivano a caso e se sono lì davanti a noi, ci sono per dirci qualcosa e tutto sta nel permettere a noi stessi di sentire, tenendo bene a mente che non sono gli altri, ma siamo noi. E quei volti, quelle voci e quegli odori ho scelto di appiccicarmeli addosso e di portarli con me, per guardarli e lasciarmi ispirare. E’ un viaggio infinito, e in cammino, le anime non si incontrano mai per caso.
Grazie
ad ogni singola scintilla divina
travestita da essere umano (o da animale)
incontrato in queste Terre
che hanno Mutato anche me.

Diario del Cammino
Giorno 1
A chiarire subito che non si sarebbe trattato di un cammino facile è arrivata una pioggia scrosciante e violenta, puntualissima, come a celebrare il nostro arrivo nell’Agrimusicismo da cui avrebbero preso il via i nostri passi. La pioggia percuoteva i furgoni, il cielo grigio incupiva le finestre e i dubbi sul da farsi scendevano come una cappa pesante sulle nostre teste, mentre già la musica e le danze si facevano spazio come a voler scacciare nembi e preoccupazioni. “Siete attrezzati per la pioggia?” Che domanda… Dipende dalla pioggia, dall’attrezzatura e anche da quanta voglia hai di sfidare intemperie, salute e destino. Ma l’entusiasmo c’è, il cibo buono di Mario dà coraggio e il gruppo sostiene e dunque… Prima mezza giornata di cammino quasi tutta sotto l’acqua. Volevamo l’avventura, no? Eccola: il sentiero dei Mietitori travestito da palude, le rocce scivolose, i passi incerti e la pioggia addosso. Pioggia, freddo, sudore sotto la mantella da pochi euro messa nello zaino così, giusto perché non si sa mai. E intanto qualche conversazione con i nuovi compagni di avventura. Una parola, una domanda, voci chiare e nomi confusi. Perché il giro di nomi al tavolo potrebbe bastare se fossimo quattro amici al bar, ma in venti escluso il vino…
Puntavo i bastoncini, vedevo più o meno il sentiero grazie alle nuvole che mi riparavano dalla luce, ascoltavo le indicazioni dei compagni e cercavo il silenzio necessario a chiedere il permesso alla terra e al bosco. Diamo così per scontata la Natura che ci dimentichiamo di fare silenzio, o almeno di ridurre il volume della voce, quando entriamo nel tempio sacro che è il bosco.
Al rifugio Mezzilitri ci siamo arrivati zuppi e infreddoliti, alcuni di noi anche un po’ scoraggiati. Era il primo giorno e se chi ben comincia è a metà dell’opera, un po’ di umore blu è il minimo, soprattutto per i trekker della domenica come noi. Stanca, infreddolita e contrariata dalla testardaggine di quel temporale infinito, ripensavo a quando quella strada asfaltata era stata la pista della discesa più goduta e veloce delle vacanze 2022. Quanto cambia il mondo che abbiamo intorno a seconda di quel che proviamo.
E poi c’è il camino acceso, un abbraccio, uno sguardo nuovo da incrociare, e poi le porzioni giganti di cibo ottimo e finalmente la musica popolare e le danze improvvisate, le risate senza respiro e il sonno strano quanto condiviso.
Giorno 2
C’è di buono che dopo il giorno arriva la notte e dopo la notte arriva il giorno, e magari per qualche ora si vede anche il sole. E così dopo una colazione fatta di indicazioni logistiche per il buffet e svariate ipotesi antipioggia, ci siamo permesse anche il lusso di spalmarci la crema solare e sperare nell’abbronzatura. Un sentiero senza ostacoli, le testimonianze rilasciate ai microfoni della Rai, carezze e sniffatine ai fiori, e ancora le chiacchiere e le indicazioni dei vedenti che caparbiamente mi indicavano come evitare le pozze che regolarmente centro in pieno. E il panorama tra Sibillini e monti della Laga e il tentativo di restituire tutta quella bellezza anche a noi. il pranzo di corsa e la corsa contro il tempo…Quello dei temporali sempre troppo puntuali. Una corsa durata quanto una presa in giro e una risata tra amici, una corsa sospesa sotto la tettoia di legno da cui quella stessa corsa era iniziata.
E lì, una delle immagini più poetiche dell’intero cammino: Il cielo di piombo e pioggia, i tuoni e il vento freddo e noi, tolti gli zaini e le mantelle, a cantare, ballare e ridere chiassosamente grazie al nostro musicante tutto organetto e rime sceme. La gioia della musica sbatte senza eleganza sul senso di frustrazione del non poter percorrere la tappa mentre il calore di una musica popolare sembra vaporizzare le gocce gelide sulle mani.
Siamo arrivati alla meta della sera – il B&B Lago Secco – nel primo pomeriggio, mezzi bagnati e forse anche mezzi allegri. Casette prefabbricate ci ricordano che quando la terra trema forte ti squassa anche le viscere e che riprendersi dal nulla che ti piomba addosso comporta fatica e tanto tanto tanto amore. Quello stesso amore che animava le mani di Clementina in cucina e di Davide al bancone. Perché la paura che ti toglie i punti fermi si combatte così: aprendo la porta a chi arriva e sorridendogli, amando quel che si fa e scacciando con una risata il dubbio del futuro.
E di nuovo la musica, i cori, le risate e gli annunci di prossimi dolcissimi arrivi. Che ormai siamo una compagnia di amici, danziamo insieme, ci prendiamo in giro, guardiamo la luna e ne subiamo insieme il fascino. Non ci conosciamo ma è come se. Sarà la musica, sarà la Sibilla, sarà la Luna Piena, saranno i brividi di freddo per la stanchezza, ma questo chiasso festoso e questa meraviglia, restano con me.
Giorno 3
Che poi, qualcuno me lo spiega perché pur anticipando la sveglia, pur avendo solo due stracci nello zaino, si finisce per fare tardi al mattino? C’è una legge fisica per cui, nonostante gli sforzi, puntuale e pronta a partire – in certi frangenti – non mi ci sento mai. Poi i primi passi, di buon mattino, sempre un po’ di corsa, come in fuga da quelle nuvole che si nascondevano ma che sapevamo inseguirci. E allora il fango, il sentiero e il muricciolo, le ortiche e le pozze, i passaggi stretti, la mano di un compagno attento e premuroso e le indicazioni vocali per camminare. E lì la ferita: lì accanto al sentiero brandelli di muri e pietre sfuocate a ricordare dove c’erano storie e giorni di lavatrici e pentole, di salotti e camere da letto. Solo pietre in fila, fantasmi, ricordi che non conosco. Una lacrima, una preghiera, e i passi che ci attendono ancora e ancora, insieme agli insetti, alle chiacchiere e al sudore.
Di nuovo la pioggia. E di nuovo metti la mantella, copri lo zaino e spera che qualche aquila nel gruppo avvisti un possibile riparo. Ed eccola lì, a lato strada, una rimessa agricola con tanto di divanetti di soffice paglia, poltrone a forma di balle di fieno e un complemento d’arredo esclusivo che normalmente serve a lavorare la terra. Un panino ben farcito, qualche traffico illegale di barrette e avanzi vari e sembra davvero un pranzo luculliano.
Poi c’è chi continua il percorso e c’è chi sceglie di raggiungere l’albergo dell’ultima sera in macchina. Questo deve insegnare il cammino: ascoltarsi, sentirsi, fare caso a sé, al proprio corpo, ai propri tempi e ai propri bisogni.
Io ho scelto di proseguire. Il fango non basta mai, avevo ancora passi da fare, sentieri da annusare, nuovi amici con cui parlare di filosofia come non facevo da troppo tempo.

Sento ancora l’accozzaglia delle emozioni di quelle ore. Il friccichìo della gratitudine e l’allegria tipica del camminatore a fine tappa si azzuffavano con il tormento di quelle transenne che delimitavano l’Amatrice che fu da quella inventata dopo il terremoto. Camminavo lentamente e mi chiedevo che senso avessero tutti quei cantieri, tra i quali non riuscivo a distinguere quali fossero attivi, quali dimenticati, quali lasciati a sé stessi. Quanta energia disperdiamo nel nostro correre da un affare all’altro, da un progetto all’altro, da un’incombenza all’altra, portandoci appresso la sensazione che niente si compia?
Per fortuna in questa nostra ultima sera c’è la Luna Piena a farci divertire, abbiamo avuto il tempo dell’aperitivo, il nostro musicante è sempre sul pezzo e stasera ha anche degni alleati e degni sfidanti. Siamo un gruppo speciale: abbiamo il musicante, gli amici del musicante, gli avventori pronti a sfidarlo a suon di rime e stornelli, e cammina con noi anche un esperto di danze tradizionali che ci insegna i passi. Il tutto si unisce al vino e ad una montagna di pasta all’Amatriciana, alle risate senza respiro e alle rime inventate sul momento. Difficile credere che domani si torna a casa.
Giorno 4
Pochi chilometri oggi, ma di una bellezza sconfinata. Bellezza in questi giorni, bellezza ovunque, ad ogni passo, ad ogni respiro, temporali compresi. Ma questi sentieri, il lago, i cavalli poco più giù e i giochi di luce e ombra tra il sole e le foglie, e il piccolo Bryan che suona il suo organetto davanti a casa mentre noi raggiungiamo Configno. Ed eccoci là a, chi con lo zaino ancora addosso e chi già senza, felici di danzare sulla piazzetta insieme a tutto il fango che abbiamo sugli scarponi, al sudore che ci accompagna, alla gioia di queste ore di sole.
Ad accoglierci nel piccolo borgo di casette in totale “heartquake style” c’era Arianna con il suo staff, che con tutto l’amore del mondo ha dato vita ad un pranzo vegetariano ricco e gustoso, degno gran finale di questi giorni magici.