Da genitori o da educatori come si concilia la necessità dei ragazzi di essere sostenuti e incoraggiati, e il loro bisogno di protezione, di verità e di contenimento? Dal volley alla mitologia ecco qualche spunto di riflessione.
Di recente il celeberrimo allenatore del Volley italiano prof Julio Velasco, incalzato in un’intervista sulla difficoltà odierna di educare i giovani, ha dichiarato che “I giovani di oggi non sono diversi da quelli di prima, ma sono i genitori diversi dalle precedenti generazioni.” Velasco ha raccontato che, a differenza di ciò che accadeva qualche decennio fa, i giovani non sono abituati ad ammettere i propri errori e i propri limiti anche perché in caso di contrasto con figure come l’insegnante o l’allenatore, mamma e papà tendono a difendere a spada tratta il figliolo, che – ben protetto da crisi e dubbi – continuerà a percepirsi il migliore e a sentirsi ingiustamente incompreso.
Questo è un problema di cui mi trovo a discutere spesso con insegnanti ed educatori che si trovano in difficoltà quando cercano un dialogo con i genitori dei propri studenti, dialogo che troppo spesso si interrompe per l’incapacità di questi ultimi di riconoscere errori, mancanze e limiti nei propri figli. A volte si fa finta di non vedere, a volte quel che si vede spaventa troppo per essere preso in considerazione, a volte semplicemente non si ha tempo di guardare né tantomeno di elaborare un piano di risposta. Questo vale per i problemi comportamentali, per le difficoltà psicologiche e anche per certi tratti che possono diventare invalidanti.
Con questo non voglio dire che dobbiamo guardare i nostri studenti come dei deficit e dei bisogni speciali ambulanti e fermarci lì. Al contrario credo che sia la verità ad educare più di ogni altra cosa. Se c’è un problema va rilevato e considerato. Se ci sono dei limiti – e ci sono sempre perché siamo umani – vanno visti e compresi e opportunamente condivisi per poi essere superati quando possibile. Ma se non siamo consapevoli delle nostre ombre e dei nostri limiti, se da giovani non veniamo contenuti nei nostri sacrosanti deliri di onnipotenza, se qualche buon maestro non ci ricorda di tanto in tanto che non siamo sempre i migliori in tutto e per tutto, come possiamo diventare adulti?
Se non ci abituiamo a prendere consapevolezza di noi stessi, ombre e limiti compresi, come possiamo sviluppare un’autostima che sa oscillare ma non crolla di fronte a quelli che ci troveremo a percepire come sbagli o fallimenti?
Di questo si tratta. Di accompagnare i ragazzi nel cammino di scoperta di sé, delle proprie potenzialità ma anche delle proprie fragilità, quelle stesse fragilità che se non vengono riconosciute, ci asfaltano al primo soffio di vento contrario.
È una bella sfida, soprattutto per chi come me è cresciuto accompagnato da stili educativi molto diversi. I miei genitori mi hanno sempre sostenuta e si sono sempre dimostrati presenti e disponibili quando io o mio fratello ne avevamo seriamente bisogno. Allo stesso tempo però se si andava in rotta di collisione con maestri, professori, insegnanti di danza, zii o nonni, difficilmente si prendeva in considerazione che potessimo avere ragione noi. C’era da combattere per difendere le proprie idee, e dovevamo lottare per tentare di scalfire quella specie di muro che ci separava da quel sospirato e quasi inarrivabile “Hai ragione”.
Oggi – al netto del mio percorso personale e della mia formazione professionale – mi convinco sempre di più che tra i grandi educatori della storia c’è anche Dedalo, inventore di quelle ali di piume e cera con cui riuscì a fuggire insieme al figlio Icaro da Creta.
Di solito si racconta che Dedalo mettesse in guardia il vivace figliolo sul pericolo che correva a volare troppo in alto, dato che il calore del Sole avrebbe buciato le ali o almeno sciolto la cera che teneva insieme le piume di uccello con cui erano costruite. Di qui il detto “volare basso” e il mantra in dialetto modenese che spesso sentivo pronunciare da mio papà “Vola bas e schiva i sas”.
Mio papà però, così come forse la maggior parte dei padri di allora, non ricordava l’altra raccomandazione di Dedalo: non volare nemmeno troppo in basso perché altrimenti l’umidità del mare ti appesantirà le piume e non potrai più volare.
Dedalo e le sue raccomandazioni sono un bell’esempio di come serva uno sguardo ampio anche sulle questioni educative, e ci ricordano che educare significa accompagnare alla scoperta di sé, dei propri opposti e delle proprie contraddizioni, delle proprie ombre e delle proprie luci, con gentilezza e onestà. Questo è sempre il passo necessario per integrare progressivamente ogni parte di noi e imparare ad amarci e ad accoglierci con tutto quello che siamo. E anche stavolta tocca ricordare che per accompagnare gli altri in un cammino simile, occorre fare lo stesso prima di tutto con sé stessi in modo molto paziente e onesto.