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Etichette, caselline e timbri. Quanto è facile appioppare giudizi e quanto è difficile toglierseli di dosso? Le etichette le mettiamo tutti e tutti ce le abbiamo in fronte, e forse anche per il mio convivere con una disabilità visiva, qualche idea in merito me la sono fatta.

A volte ho l’impressione che sia sufficiente un bastone bianco per sovrascrivere la complessità di un’intera storia di vita. Sembra basti segnalare di avere una qualsiasi riduzione della capacità visiva per generare automaticamente una serie di deduzioni e immagini: se hai il bastone bianco non vedi nulla come tutti quelli che hanno  in mano lo stesso arnese, sei nato sotto il segno della sfortuna e il tuo ascendente brilla probabilmente in handicap. Qualcuno potrebbe dire di te anche senza conoscerti che sei una persona speciale, che – scoop! – sei fragile e hai bisogno di aiuto ad ogni ora del giorno e anche per questo non lavori e non combini granchè nella vita. A causa della tua immensa sfortuna sei molto arrabbiato o molto triste, sicuramente frustrato e annoiato.

Per fortuna ci sono anche quelli che propendono per una lettura diversa di te, creatura bizzarra con annesso bastone bianco e occhiali scuri: sei una specie di super eroe con coraggio e forza da vendere e contro ogni pronostico se la cava sempre. Sei sempre in movimento, dai forza e coraggio come Mac Donald distribuisce patatine, puoi fare sempre tutto e visto che sei così autonomo e ti muovi così bene… “Mi dimentico che non ci vedi”.

Confermo che un deficit visivo di qualunque tipo(parziale o totale, stazionario o progressivo, laterale o centrale, statico o mutevole,alla luce o al buio…) ti obbliga spesso a chiedere aiuto, a trovare strategie alternative e soluzioni inedite ai problemi quotidiani. Confermo che con frustrazione, rabbia e tristezza devi farci i conti seriamente e che coraggio, determinazione e fede sono imprescindibili a volte anche solo per uscire di casa.

Confermo che anche tra le persone con disabilità visiva ci sono quelli dinamici e iperattivi e quelli più sedentari e pigri, quelli che si arrabbiano, si intristiscono, si deprimono e anche quelli che sorridono, ironizzano e sdrammatizzano, e – ca va sans dir – a volte dipende dai giorni e puoi essere uno e l’altro simultaneamente!

Forse anche per difendermi da questi pregiudizi ho iniziato tardi ad usare il bastone bianco, e ho dovuto lavorare su di me per non appiattirmi (anche interiormente) dietro quello che di fatto è solo un ausilio per me e un segnale per gli altri. Volevo essere Nadia, qualunque cosa volesse dire, e non essere guardata attraverso il filtro di una categoria a cui – per i miei personali pregiudizi – non mi sentivo nemmeno troppo di appartenere.

I pregiudizi – positivi o negativi che siano – rubacchiano fin troppo spazio all’unicità e all’autenticità che ognuno di noi vorrebbe vedersi riconosciute. Le etichette che ci ritroviamo appiccicate addosso dalla società diventano pesanti soprattutto quando si mescolano con la pelle e ci condizionano non solo nei comportamenti esteriori, ma anche nei pensieri, nei sentimenti e negli schemi mentali.

Se ti raccontano che la tua disabilità ti porterà a non trovare lavoro o a fare un lavoro misero, rischi di convincertene, e se sei anche donna, la doppia discriminazione te la senti tanto addosso che finisci per prenderla come una condanna inevitabile.  Se ti raccontano che siccome sei disabile resterai sola perché tu hai bisogno di aiuto e la gente è egoista, rischi di mettere inconsapevolmente in atto esattamente quel copione.

Di fronte a questo io ho scelto di mettermi in cammino e andare alla ricerca di me. Così mi sono ritrovata a chiedermi cosa c’era di vero in quegli stereotipi che tanto mi facevano arrabbiare e ho scoperto che io stessa in qualche anfratto della mia mente avevo così paura che fossero veri, che mi dimenticavo di essere libera.

Mi sono ritrovata a guardare me stessa e ho compreso – non senza rammarico – che la prima a dare forza a quelle convinzioni ero proprio io, a volte giudicando e punendo me stessa, a volte giudicando gli altri. Facevo esattamente quel che non volevo. Mi arrabbiavo col mondo per i pregiudizi con cui mi soffocava e mi scoprivo così piena di paura e di rabbia da non riuscire a scegliere una via alternativa alle profezie che mi puntellavano il cervello.

Forse non ce lo insegnano con sufficiente convinzione, ma c’è sempre un’alternativa. Costa sacrifici, richiede tempo, pazienza, tantissimo amore per sé stessi e una fede incrollabile. Ma se abbiamo il coraggio di guardarci davvero, possiamo anche invertire la rotta. Partendo da quei pregiudizi, vedendo quanto si siano incollati ai nostri pensieri, possiamo lavorare per smantellarli, prima dentro di noi e poi intorno a noi.

E attenzione a pensare che siano la rabbia incontrollata, l’arroganza o l’orgoglio a poter combattere i pregiudizi che inquinano la nostra società. Serve determinazione e assertività, ma senza ascolto, senza pazienza e senza un costante lavoro su sé stessi per ripulire l’energia, non ci si può ribellare al sistema.

E’ un viaggio lungo e complesso, non privo di insidie e di tranelli, un viaggio che parte da dentro ma che si sviluppa necessariamente fuori, nella comunità di cui facciamo parte.

Quando decidiamo di metterci in cammino arrivano a noi anche i buoni maestri che hanno intrapreso quel viaggio un po’ prima, e che sanno tenerti a mente che gli altri non sono minacce o ostacoli al tuo incedere, ma solo immagini a cui riferirsi per comprendere e andare avanti. Man mano che si smantellano i pregiudizi si incontrano tanti specchi, che si tratti di buoni o cattivi esempi, che ci aiutano a fare il punto tappa per tappa e a prendere coscienza delle luci e delle ombre che ci abitano. E nel processo dobbiamo sempre avere fede in noi, non solo nelle nostre luci, ma anche nelle nostre ombre e nelle nostre fragilità.

Oggi sono ancora ben lontana dal sentirmi completa, compiuta e perfetta, ma sono così impegnata a seguire il mio cammino, che – pur provando un certo disgusto per gli stereotipi – riesco sempre meglio a prenderne distanza, riconquistandomi coi morsi, coi pugni ma anche coi baci e le carezze, la mia libertà di essere, di fare, sbagliare e vivere..

Grazie Ilaria Gallino per le foto!

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